“Pido la palabra”

di Eliodoro Aillòn Teràn – tradotto da Gigi Cavagna

Pubblichiamo una poesia emblematica del poeta sociale e giornalista Eliodoro Aillon Terán, nato a Sucre, in Bolivia, il 16 marzo 1930. Ha studiato all’Università di San Francisco Xavier a Chuquisaca. Nel 1953 vinse il premio per “Los Juegos Florales” (I giochi floreali) sponsorizzato dalla Scuola Nazionale dei Maestri. Fondatore del Sindicato de Trabajadores de la Prensa (Sindacato dei giornalisti) di Sucre, andò in esilio in Ecuador nel 1971, dopo il colpo di stato del generale Hugo Banzer Suárez. Lì sviluppò una proficua attività giornalistica che nel 1979 gli valse il Premio Nazionale del Giornalismo. Nel 1988 torna in Bolivia, vi si stabilisce e crea la facoltà in Scienze della Comunicazione presso l’Università “San Francisco Xavier”. Morì nella sua città natale nel pomeriggio del 21 giugno 1992 (Miguel Martínez Naón).

“L’ode non è solo patriottica, ma profondamente rivoluzionaria, nelle sue modulazioni di lamentela e protesta, Aillón affronta sinceramente le esperienze più crudeli delle famiglie proletarie e l’immagine di una patria disprezzata dall’ingiustizia. Per la sua dignità e forza come per la sua originalità accusatoria, difficilmente ha eguali” (Augusto Guzmán)

PIDO LA PALABRACHIEDO LA PAROLA
Ciudadanos del mundo,
en nombre de mi patria
pido la palabra.
En nombre de mi pueblo
sencillo com el agua de la acequia,
pido la palabra.

E mi pequeña morada
comenzò la patria.
Allì todos gritaban en las noches,
cuando el puño del alcohol
caìa sobre el rostro de mi madre.
Recuerdo la sangre y los nervios,
los nervios en angustia
de alambres aprensados!
En las noches hondas,
pobladas del llanto
y el miedo de los pequeñitos,
allà,
en la esquina màs dolorosa de mi sangre,
comenzò la patria.

La escuela vino despuès.
Tambien la patria estaba allì,
avergonzada, humillada,
ocultando en los rincones màs apartados
sus pies descalzos.
Y la patria me miraba acongojada
desde mis propias pupilas nubladas,
desde mis manos vacias
y en mis sueños enturbiados.
A mi me mostraban la escuela
poblada da azules campanas
y la patria
cuajada de campos abiertos,
pero mi patria
gemia a cuatro mil metros
sobre el nivel del hambre.
Hombres que crecian
como piedras paridas por la montaña,
desnudos y frios, como peces muertos,
moviendose apenas,
llevando a cuestas su grito truncado
como una roca clavada en lo màs hondo,
en lo màs duro de la tierra.

No, señores,
la patria no era solamente
la escuela poblada de altas campanas,
ni la tierra salpicada de lagos felices.
No era solamente
los montes incrustados de cielo
ni los desfiles en los dias de fiesta;
era tambien la impotencia del hombre
cuando el pan se convierte en gemido
detràs de las puertas;
era la muchacha
que buscaba su vestido dominguero
en las esquinas de la noche;
eran la manos crispadas en los mercados
y el llanto extendido en las estaciones…
Mi padre borracho era la patria
que pesaba sobre mis pupilas,
sobre mis labios,
sobre mis zapatos rotos.
Y con esta patria a cuestas
yo asistia a la escuela.
Una patria con hèroes,
con cerros de plata,
con tierras llenas de arboles frutales.
Pero yo tenia que regresar
a mi casa en las noches,
y allì estaba la patria:
en el pan para dos
que nunca satisfacia a cuatro;
en las pupilas de mi padre
abiertas como dos diablos encendidos
en medio de los ninos.

No, señores,
la patria no solo estaba en los salones
y los discursos de los presidentes;
nisiquiera en la bandera y sus colores.
yo encontrè a la patria
botada en la mitad de las calles,
mientras la lluvia cercenaba sus carnes.
Yo la vi desgarrarse
por coger un pedazo de carne
y otro poco de pan,
y llorè su tragedia,
porquè teniendo hambre
se comiò su libertad!

Y mentidme a mi, ahora,
mentidme!
Yo no vi a mi patria
en todos sus confines,
la sentì como un garfio
clavado en mitad de mi angustia,
la llevè como Tunica de Neso
por todos mis caminos,
la sentì
como el peso de Dios sobre el pecado
y busquè su voz,
para multiplicarla sobre las campanas del tiempo.

Yo vengo
en nombre del obrero
y sus overoles manchados;
en nombre de mi padre y su vicio pagado con la desnudez de sus hijos;
en nombre de mi madre
y su voz callada;
en nombre de los niños
yo vengo;
en nombre de mi patria
estrujada por manos sin salario.
Y no vengo a pedirles nada,
nada que les pertenezca.
Mi pueblo quiere su paz,
quiere su barco
para recoger en la playas lejanas
un canto de gaviotas nuevas;
quiere sembrar su trigo
y levantar sus fabricas;
quiere que sus niños rian,
jueguen y salpiquen los campos
como las gotas del rocìo;
quiere que todos crezcan
a lo largo de los rios como el trigo,
y que todos se hinchen de sol y de lluvia
como las uvas
En la cuenca dilatada de los valles.
En nombre de mi pueblo,
humilde como la hierba,
sencillo como el agua de la acequia,
ciudadanos del mundo
pido la palabra.
Cittadini del mondo,
in nome della mia patria
chiedo la parola.
In nome del mio popolo
Semplice come l’acqua del canale
chiedo la parola.

Nella mia piccola dimora
ebbe inizio la patria.
Lì tutti urlavano di notte
Quando il pugno dell’alcol
piombava sul volto di mia madre.
Ricordo il sangue e i nervi,
i nervi in preda all’angoscia
afferrati come da fili di ferro!
In quelle notti fonde,
popolate dal pianto
e dalla paura dei piccolini,
là,
nell’angolo più doloroso del mio sangue,
ebbe inizio la patria.

La scuola venne in seguito.
Anche la patria si trovava là,
mortificata, umiliata,
nascondendo negli angoli meno in vista
i suoi piedi scalzi.
E la patria mi guardava angosciata
dalle mie stesse pupille annebbiate,
dalle mie mani vuote
e dentro i miei sogni perturbati.
A me facevano vedere la scuola
popolata di azzurre campane
e la patria
ricoperta di campi aperti,
però la mia patria
gemeva a quattro mila metri
sul livello della fame.
Uomini che crescevano
come pietre partorite dalla montagna,
nudi e freddi, come pesci morti,
muovendosi a fatica,
caricandosi in spalla il loro urlo strozzato
come una roccia conficcata nel profondo,
nella parte più dura della terra.

No, signori,
la patria non era solamente
la scuola popolata da alte campane,
né la terra spruzzata da laghi felici.
Non era solamente
le montagne rivestite di cielo,
e neppure le sfilate nei giorni di festa;
era anche l’impotenza dell’uomo
quando il pane si trasforma in gemito
dietro le porte;
era la ragazza
che cercava il suo vestito domenicale
negli angoli della notte;
erano le mani esasperate nei mercati
e il pianto protratto lungo le stagioni…
Mio padre ubriaco
Era la patria che pesava sulle mie pupille,
sulle mie labbra,
sulle mie scarpe rotte.
E con questa patria sulla groppa
Io frequentavo la scuola.
Una patria con eroi,
con montagne d’argento,
con terre rigogliose di alberi da frutta.
Ma io dovevo ritornare
a casa mia tutte le notti,
e lì c’era la patria:
nel pane per due
che mai ne saziava quattro;
nelle pupille di mio padre
spalancate come due diavoli accesi
in mezzo ai bambini.

No, signori,
la patria non si trovava solo nei saloni
e nei discorsi dei presidenti;
neppure nella bandiera e nei suoi colori.
Io ho trovato la patria
buttata via in mezzo alla strada,
mentre la poggia tagliava le sue carni.
Io l’ho vista straziarsi per afferrare un pezzo di carne
e un poco di pane,
e ho pianto la sua tragedia
perché avendo fame
si è mangiata la propria libertà!

E mentitemi, adesso,
mentitemi!
Io non ho visto la mia patria
In tutti i suoi confini,
l’ho sentita come un uncino
conficcato nella mia angoscia,
l’ho portata per tutti
i miei viaggi come la Tunica di Nesso,
l’ho sentita come
il peso di Dio sopra il peccato
e ho cercato la sua voce
per moltiplicarla sulle campane del
tempo.

Io vengo
in nome dell’operaio
e le sue tute sporche;
in nome di mio padre e il suo vizio
pagato con la nudità dei suoi figli;
in nome di mia madre
e la sua voce messa a tacere;
in nome dei bambini
io vengo;
in nome della mia patria
spremuta da mani senza salario.
E non vengo a chiedervi niente,
niente che vi appartenga.
Il mio popolo vuole la sua pace,
vuole la sua barca
per raccogliere su spiagge lontane
un canto di nuovi gabbiani;
vuole seminare il proprio frumento
ed innalzare le proprie fabbriche;
vuole che i propri bambini ridano,
giochino e spruzzino i campi
come le gocce di rugiada;
vuole che tutti crescano
lungo i fiumi come il grano,
e che tutti si abbuffino di sole e pioggia
come i grappoli d’uva
nell’ampia conca delle vallate.
In nome del mio popolo,
umile come l’erba,
semplice come l’acqua del canale,
cittadini del mondo
chiedo la parola.
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